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Davide Riccardi: “Il canottaggio è l’università della vita”

venerdì 6 Aprile 2012

Davide Riccardi: “Il canottaggio è l’università della vita”

ROMA, 06 aprile 2012 – Papà da quasi due anni di Alejandro Josè, marito di Veronica, vicecampione mondiale nell’otto pesi leggeri, fresco di Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali, sostenitore degli ideali promossi da Animosa. Tutto questo è Davide Riccardi, ventiseienne canottiere fiorentino delle Fiamme Oro e della Nazionale. Il coronamento del traguardo universitario è l’occasione migliore per approfondire ancora una volta il personaggio e dimostrare che lo studio e la voga ad alto livello non sono come il Diavolo e l’AcquaSanta. Non solo: Riccardi ci parla della sua famiglia, della scoperta della fede e del suo impegno sociale per la Colombia.

Allora Davide, sono passati quasi due settimane dal fatidico giorno: che effetto ti ha fatto concludere un percorso di studi tra allenamenti, gare e impegni sportivi?

E’ stata una gioia immensa, a distanza di circa quindici giorni ho ancora l’adrenalina sotto pelle. E’ stato come vincere un Mondiale”.

Già con 110 e lode…

Il voto finale è stata la ciliegina finale, quando ho visto la Commissione alzarsi e applaudire ho capito di avercela fatta. Se penso che al liceo mi capitava di addormentarmi sui banchi per via degli allenamenti prima di scuola, mi viene da ridere. Quante volte i professori mi hanno detto che dovevo mollare, che non avrei fatto bene né la scuola né lo sport. Continuai perché ho avuto la fortuna di avere dei genitori che hanno creduto che la gioia di un figlio sia vederlo crescere rincorrendo i propri sogni, desiderarli, volerli fortemente e realizzarli”.

A chi dedichi questo sogno finalmente realizzato?

“Le dediche da fare sarebbero molte. In questi anni ho avuto molte persone che mi sono state vicine, in primis mia moglie Veronica che da sei anni mi “sopporta” e mi “supporta” incoraggiandomi nei momenti di sconforto e di stress. Più di una volta ho pensato di mollare tutto ma lei era lì a tifare per me sui campi di regata e alle sessioni di esame. E poi, adesso che c’è anche mio figlio,il piccolo Alejandro,…chi mi ferma più! Ovviamente non posso non menzionare oltre ai miei genitori, i miei amici e le Fiamme Oro”.

A proposito di Fiamme Oro, come riesci a conciliare sport di vertice con lo studio?

“Le Fiamme Oro sono un luogo unico, adatto per chi voglia crescere dal punto di vista sportivo ma anche sotto il profilo culturale ed umano. Sin dal primo anno di arruolamento, nel 2005, ho ricevuto la massima fiducia dal Comandante Elmo Santini. Sapeva che avevo intenzione di studiare e remare ad alti livelli, qualcuno ne dubitava ma lui scommise su di me, mi diede fiducia e oggi gliene sono grato per la vita. Da allora, annualmente, ci sono stati nuovi arruolamenti di atleti validissimi che fanno oggi parte tutti del Gruppo Olimpico e Mondiale. La competitività del nostro Gruppo Sportivo è un punto di forza, nessuno vuole rimanere indietro, così si innesca un meccanismo virtuoso. Quando i ragazzi scendono a Sabaudia per allenarsi soffro di più ma sono contento perché in questi anni ho imparato molto da ciascuno dei miei compagni, è un dare e avere reciproco. Ovviamente quando gli obbiettivi sono così alti può accadere che sopraggiungano anche attriti ma sino ad ora credo che siano stati affrontati in maniera costruttiva e finalizzati ad una crescita comune”.

Detto così sembra che sia tutto rose e fiori…

“Non proprio, rose e fiori sono se si è capaci di farli fiorire. Spetta all’atleta, in concerto con l’allenatore, indirizzare il seminato. Credo che comunque in questi anni, grazie al lavoro del D.T. Valter Molea, si stia crescendo, la strada è ancora lunga ma abbiamo un ampio margine di miglioramento”.

E degli anni al College, che cosa ci dici?

“Sono stati anni duri ma estremamente formativi, avevo appena 15 anni, provenivo dalle scuole fiorentine-ravennate di Gigi De Lucia e Alberto Lupo (che ricorda sempre con affetto n.d.r.) nelle quali si faceva doppio allenamento alle 5.30 prima di entrare in classe, ma l’esperienza a Piediluco è stata molto forte. Oltre alle corse all’alba tra i cinghiali per scalare Labro (il paesino sulla collina di fronte a Piediluco), ho capito che significa ambire ad essere atleta con la “A” maiuscola ma soprattutto ho interiorizzato una virtù che oggi alleno quotidianamente: la volontà. Con questa si può raggiungere l’impensabile, si può vedere laddove nessuno vede. Di lì a poco raggiunsi la mia prima medaglia in un mondiale, argento in due con junior. Pesavo appena 70 chili, sul podio i timonieri polacchi e ucraini erano più alti di me! Anche lì contò la determinazione, presa d’esempio dalla dedizione degli atleti olimpici che nel 2004 si preparavano per Atene”.

Ricordi qualche atleta in particolare?

“Agostino Abbagnale, impressionante. Un atleta di una generosità sportiva unica, sovrannaturale. Quando si allenava al remoergometro allagava la piscina del Centro Federale mantenendo delle medie impressionanti per ore! Anche dal punto di vista umano rimasi molto toccato, soprattutto dalla sua umiltà. Mi trattò da subito come un amico di vecchia data, per me fu un onore e un maestro. Mi colpì la modestia con la quale il più grande atleta della storia del canottaggio si relazionasse con un ragazzino, mi chiamava simpaticamente “Ercolino” per le quintalate di pesi che sollevavo”.

Dove trovi le motivazioni e gli stimoli per andare avanti?

“Ad essere sincero, la mia più grande motivazione la trovo in Cristo. Attraverso di Lui ho superato momenti difficili della mia vita, è un cammino molto difficile ma provo umilmente a seguirlo. Sto imparando che nella vita la vera forza nasce dall’amore nel fare le cose, cercando di mettere al centro la persona e non le cose stesse. E’ un cammino arduo che va allenato quotidianamente, come la preparazione dell’atleta. Anche in questo, il canottaggio mi ha insegnato tantissimo ad essere costante nel coltivare la ricerca di Dio che è amore o detto in termini “più laici” è passione per l’essere umano che racchiude in sé la scintilla dell’ amore stesso. Raramente mi apro in maniera così schietta su questi temi, cerco di affrontarli sempre secondo un approccio laico, confrontandomi con gli altri sui valori più che sui dogmi. A mio avviso le religioni dovrebbero unire, cercare punti di contatto, purtroppo però spesso succede il contrario”.

Come hai scoperto questa fede?

“Attraverso la missione nel Nord della Colombia di un gruppo di frati carmelitani. Fu un esperienza toccante che a diciotto anni mi stravolse la vita. Sino ad allora vivevo la fede spesso con aridità, quasi come una “routine statica” senza capire il senso universale dell’amore. Purtroppo oggi la parrocchia non funge più da centro di aggregazione e ricreazione. Per fortuna questa funzione educativa nella mia esperienza personale è stata colmata dal canottaggio, da questo sport ho imparato ad apprezzare la bellezza dello stare con gli altri e andando in Colombia a fare anche ciò che si fa per gli altri”.

Quindi la Colombia ti ha cambiato?

“Certamente, appena compiuta la maggiore età mi trovai catapultato in una realtà dove vigeva la regola del più forte, nella quale il contrasto tra ricchi e poveri era così forte da passare nell’arco di pochi chilometri in ambienti paragonabili ai quartieri più ricchi di una qualsiasi città svizzera a situazioni rurali paragonabili forse all’africa sub-sahariana, senza acqua, luce e servizi essenziali per la persona”.

E da lì nacque ANIMOSA…?

“Infatti, tornai da questa esperienza con un senso di ingiustizia talmente forte che capì che la vita non ha senso se non si condivide con gli altri ciò che si ha in termini di virtù e talenti. Ognuno di noi ha vari talenti da scoprire, coltivare e mettere a disposizione del prossimo. Nel 2005, il gruppo che fondò l’associazione culturale ANIMOSA (oggi associazione di volontariato a tutti gli effetti e quindi anche onlus, www.animosa.it ) aveva lo sport, che è anche cultura, come talento comune”.

Che progetti avete per il presente e per il futuro?

“Nel 2012 abbiamo concluso finalmente un ambulatorio sanitario per i rifugiati della guerra civile che affligge la Colombia da oltre mezzo secolo. Per il futuro abbiamo in progetto un progetto di sport finalizzato a recuperare i giovani in condizioni di disagio economico e sociale che altrimenti rimarrebbero ai margini della società con forti probabilità di essere arruolati in bande criminali (guerriglie e nuovi paramilitari). Lo scorso anno ho allacciato contatti con le autorità governative e sportive colombiane per far sì che questo progetto possa essere coordinato in un quadro internazionale di cooperazione inter-istituzionale”.

Tornando al discorso dei sogni, quali hai a breve termine e quali a lungo?

“Dal punto di vista sportivo ovviamente il pungolo di ogni atleta rimane l’Olimpiade, non ne parlo mai molto per scaramanzia. Vedremo, l’importante è seminare! In ambito professionale vorrei proseguire gli studi sulla tematiche legate allo sport e alle problematiche sociali. Grazie ad una borsa di studio concessa dalla LINK CAMPUS UNIVERSITY di Roma ad alcuni atleti universitari azzurri di varie discipline, sto frequentando un Master nel quale auspico di poter sviluppare una tesi che persegua questa finalità, valorizzando lo sport, incluso e soprattutto quello di vertice, come opportunità di sviluppo umano della persona e non dell’esclusivo protagonismo fine a sé stesso. Ho già in mente alcuni progetti da sviluppare che a mio avviso potrebbero rendere lo sport più umano ma comunque al passo coi tempi. Infine voglio dedicarmi alla mia famiglia, a mia moglie e mio figlio. Tempo fa lessi l’intervista di un grande della nostra Squadra Azzurra, Rossano Galtarossa. In quell’occasione “Rox” affermava che dopo tante emozioni sportive quella che gli manca è un podio con suo figlio. E’ vero, vivere una premiazione con il proprio bimbo è un brivido che rimane indelebile tutta la vita, ho avuto la fortuna di provarlo l’anno scorso a Bled e lo auguro al più ampio numero di atleti perché si tratta di un’ emozione unica”.