ANITA PINTO, DI NUOVO LA LUCE DOPO IL BUIO. TI ASPETTIAMO
FIRENZE, 21 luglio 2008 – Una storia a lieto fine. Anita Pinto, 22 anni, atleta della Canottieri Firenze, due bronzi iridati juniores in quattro di coppia e brillante capovoga un anno fa del quattro senza campione mondiale under 23, apprezzata pianista diplomata in solfeggio al Conservatorio Cherubini di Firenze, sta tornando finalmente a sorridere dopo aver visto il buio. Era in raduno a Piediluco, stava allenandosi per i Mondiali di Linz, quando si è accasciata sulla barca priva di sensi. Ricoverata d’urgenza nel reparto malattie infettive dell’ospedale di Rieti le è stata diagnosticata una forma acuta di encefalite virale. Dopo due settimane di ricovero è tornata a casa ed è fuori pericolo. Pubblichiamo con piacere il racconto che lei stessa ci ha fatto di questi terribili giorni e, abbracciandola con affetto, le diciamo che l’aspettiamo nuovamente sui campi di gara per riprendere esattamente da dove aveva lasciato.
“Non chiedetemi cos’è successo, perché non lo so. Non ho nessun ricordo. Il mio cervello ha voluto cancellare buona parte di quel pomeriggio del 2 luglio, a Piediluco. Qualcuno si è dimenticato di salvare i dati ed il computer si è spento improvvisamente. Alcuni flash. Ecco cosa rimane nella mia memoria. Solo dei flash. Mi ricordo che erano le 19.30 pressappoco. Ero sul 4 senza, ci stavamo preparando per il campionato del mondo a Linz. Avevamo completato i primi quattro chilometri di allenamento: fondo. La barca era in posizione di partenza: “Finale, Pronte, Via”. Qualche colpo, forse 500 metri. E si spensero le luci. Flash. Ero seduta in macchina con il dottore. Davanti a me un paesaggio sconosciuto: prati verdi ai nostri lati, una strada tortuosa, leggermente in salita, che spariva nelle colline di fronte a noi. Stefano mi disse qualcosa. La sua voce rimbombò nella mia testa e si allontanò. Buio… di nuovo. Un vecchio lampione di una strada abbandonata illumina intorno a sé, quasi per caso, per pochi istanti, per poi lasciare nuovamente al buio tutto ciò che lo circonda. Le voci si riavvicinano. Questa volta sono molte di più. Che confusione! Distesa su un lettino, al fianco di altri lettini con altrettante persone, e molte altre in piedi. Riconosco qualcuno: Luigi, Stefano, Elvira. Li sentivo parlare, sembravano preoccupati ma non capivo quello che dicevano. Tenevo gli occhi chiusi. Era come se fossi in dormiveglia. Non mi ricordavo le cose, e se cercavo di parlare non mi usciva la voce… proprio come negli incubi, quando cerchi di urlare ma dalla bocca non esce niente… mi pareva d’avere le labbra addormentate. Nelle ore seguenti presi coscienza di essere all’ospedale di Rieti a causa di uno svenimento, pur continuando a ignorarne il motivo. Una cosa però ricordo bene: vomitavo, vomitavo, vomitavo… Come se il mio corpo si volesse liberare di qualcosa a lui velenoso; qualcosa che non avevo mai sentito fino ad allora ma che a quanto pare ne avevo tanto, troppo… La prima notte, mercoledì, la passai da sola. A vomitare. Il giorno dopo ho avuto la compagnia di Angela Bonciani. Si è gentilmente offerta per venire da Firenze a Rieti aspettando che i miei genitori, essendo fuori casa, arrivassero da più lontano. Venerdì Angela e i miei si sono dati il cambio. Ero ancora molto poco cosciente di ciò che mi capitava intorno. Sabato però, c’è stato un cambiamento. Sapevo riconoscere i passi dei miei nel corridoio. Venivano la mattina presto, facevano a turno per andare a mangiare e rimanevano fino a tarda notte. Io dormivo; sì, insomma, il solito dormiveglia. Ma era l’unico modo per avere un po’ di sollievo ai dolori lancinanti a testa, occhi, spina dorsale (grazie a tre punture epidurali per il prelievo del midollo spinale) e costola. Sabato però, insieme ai loro passi, c’era una persona in più. Non mi pareva né un infermiere né un dottore, camminava con la stessa andatura dei miei, parevano “insieme”. La porta si aprì dolcemente, come sempre, per non disturbarmi. Vidi mio fratello. Mio fratello, che abita e lavora a Bruxelles. Mio fratello che ormai è dal 2001 che mi ha sempre seguito ai campionati del mondo ai quali ho partecipato. Mio fratello, che riesce a rimanere calmo e lucido anche nelle situazioni più difficili. Mio fratello, che ho visto molto preoccupato aprendo quella porta. Schianto a piangere. “CI DOVEVAMO VEDERE A LINZ IO E TE! CI DOVEVAMO VEDERE A LINZ! NON QUI! A LINZ!”. Il pianto mi soffocava. Mi ha abbracciato, forte forte. Non ha detto una parola. E’ stato in quel momento, quando è comparso mio fratello alla porta della mia camera, in cui ho realizzato che ciò che mi era successo non era affatto cosa semplice. Non sapevo ancora bene cosa fosse. Me l’avevano detto, sì, ma non realizzavo. Encefalite virale. La prima settimana, quella sul lettino non era Anita. Era un vegetale. Distesa, senza nemmeno riuscire ad alzare la testa dal cuscino, febbre alta, vomitando continuamente, con dolori massacranti a testa, occhi, costola e spina dorsale. Non volevo vedere nessuno ma la solitudine mi angosciava. Il rumore mi faceva scoppiare la testa; ma il silenzio ancor di più. Non riuscivo a tenere gli occhi aperti dal dolore. Un dormiveglia all’inferno. Era come se il dolore mi rapisse e mi portasse in un’altra dimensione. Mi sembrava di essere entrata a far parte del Signore Degli Anelli e dover lottare contro i Nazgul: i Cavalieri Neri, spettri del Male, che rapivano l’anima di Frodo Baggins con il tentativo di sottrargli l’Anello; e rendevano Frodo quasi totalmente inerme e sotto il potere del Male. Passati i primi 5–6 giorni, un granello di sabbia dopo l’altro, ho cominciato a vedere alcuni miglioramenti. A furia di farmaci, ho cominciato a smettere di vomitare e i dolori che mi attanagliavano hanno mollato – anche se poco – la presa. Sono riuscita a mangiare due omogeneizzati alla frutta (divisi in quattro volte nell’arco della giornata): imboccata da mia madre mentre mio padre cercava di sollevarmi leggermente la testa dato che non riuscivo a stare in altra posizione che orizzontale. Un ulteriore miglioramento l’ho raggiunto grazie al letto reclinabile, stando con il busto un po’ più verticale. Poi seduta a gambe incrociate ma senza girarmi o voltare la testa, altrimenti rischiavo di ricominciare a vomitare. Poi seduta sul bordo del letto ma non più di 2 minuti. Cominciando a stare meglio riprendevo anche la capacità di ragionare. E calcolare. Calcolare che il giorno in cui sono collassata mancavano 20 giorni spaccati all’inizio del mondiale a Linz. Calcolare soprattutto che giorno era e quando sarebbe finito il raduno a Piediluco… e capire che io miglioravo, ma lentamente; i giorni passavano e a me non davano segni di poter essere dimessa in tempo per riprendere il mio posto in barca. Se la prima settimana di ricovero ero un vegetale, la seconda l’ho passata a lottare, sotto tanti aspetti. Il fronte più impegnativo, però, è stato quello contro me stessa. Quanto ho cercato di non demoralizzarmi, di trovare qualche lato positivo. E invece trovavo rabbia. Solo rabbia e amarezza. Perché? Perché a me? Dopo tutto l’anno che ho passato! Dopo aver deciso di trascurare per un anno l’università, tralasciare tanti altri impegni e occasioni per tentare il tutto e per tutto nel canottaggio… nonostante i problemi fisici e le molte difficoltà incontrate durante la stagione, di non abbandonare …, nonostante la mia società che non è in grado di dare un sostegno economico agli atleti di alto livello… Perché proprio a me? Certo che non lo auguro a nessuno! Ma perché a 20 giorni dall’inizio dei mondiali? Perché una cosa così grave? Perché ho rischiato, prima la vita e poi, di danneggiare per sempre il mio cervello? Si dice che la speranza è l’ultima a morire. Ed ho sempre avuto la speranza di riprendermi in modo miracoloso. In fondo il mio corpo si è sempre comportato bene, è sempre stato rapido nel recupero dai vari infortuni che già vanto nel mio curriculum medico. Il fatto è che non volevo capire l’entità di ciò che mi era capitato quel pomeriggio del 2 luglio, durante l’allenamento a Piediluco. La speranza è l’ultima a morire. Ma quando muore, non c’è proprio più niente da fare. Fiumi di lacrime sono uscite dai miei occhi. Speravo ad un certo punto che mi finissero, almeno mi sarei data un po’ di pace. Quante energie per auto-convincermi che poteva andare peggio, che non ci potevo fare niente, che non mi restava che guardare avanti, che l’importante era curarsi bene. Continuavo a ripetermelo. Continuavano a ripetermelo in coro anche le persone che mi stavano vicino, coloro che mi chiamavano, chi mi veniva a trovare. Come si dice in Toscana: “a furia di ripeterti una cosa, e’ va a finire che ti ci convinci che gliè vera”. Dopo 15 giorni di ricovero all’ospedale di Rieti sono finalmente rientrata a Firenze. Grazie a Dio e allo staff medico sto bene, posso riprendere a fare una vita normale. Di agonismo ovviamente per ora non se ne parla. Prima di tornare ad allenarmi dovrò sottopormi ancora a molti test ed esami di controllo. Il peggio è passato, non ci sono né danni né conseguenze ma una encefalite virale è molto delicata e ha bisogno di un periodo di prudenza ed attenzione abbastanza lungo. Ironia della sorte: leggendo La Repubblica del 15 luglio 2008 (due giorni prima che mi dimettessero) trovo un trafiletto che recita: “Olimpiadi, muore in allenamento il canoista Giorgy Kolonics […] Il campione olimpico Giorgy Kolonics è morto, probabilmente a causa di un infarto”. L’unico modo per impedire all’amarezza ed alla rabbia di divorarmi, è pensare a quanto peggio poteva andare!
RINGRAZIAMENTI: Avrei tantissimi nomi da fare. Moltissime persone hanno dimostrato il loro affetto e la loro vicinanza, a me ed alla mia famiglia, pur non essendo fisicamente al nostro fianco. Un appoggio fondamentale nella mia guarigione. Vorrei però rivolgere un ringraziamento particolare a tutto lo staff della Federazione Italiana Canottaggio per la continua presenza, attenzione e sostegno. E non posso non citare il dottor Giampaolo Natalini assieme al suo reparto dell’Ospedale di Rieti: mi hanno seguito con affetto, competenza ed efficienza”.