Comunicato Stampa
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di IVO ROMANO Un provvedimento che non poteva che dare la stura a una serie di polemiche: favorevoli da una parte, contrari dall’altra. Simon Clegg, presidente della «Boa», lo ha difeso a spada tratta contro gli attacchi provenienti da più direzioni: «Ci sono tante organizzazioni di vario genere che avrebbero piacere se gli atleti publicizzassero le loro cause. Ma non credo che questo sia nel nostro interesse e in quello delle nostre performance sportive. Gli atleti sono gli ambasciatori del nostro Paese, è normale che debbano essere sottoposti a un appropriato codice di comportamento». Secondo Darren Campbell, medaglia d’oro ad Atene del 2004, tale decisione finirà per mettere ulteriore pressione agli atleti. Ma non se n’è detto affatto scandalizzato: «Andiamo lì per rappresentare il nostro Paese in termini puramente sportivi, la politica e i diritti umani non c’entrano nulla». Altri uomini, altre idee. Per Lord David Alton, celebre per il suo impegno per i diritti umani, «la decisione rappresenta una soppressione del diritto alla parola: l’unica giustificazione per la partecipazione ai Giochi di Pechino è proprio la possibilità di porre l’accento sulla delicata questione dei diritti umani». Del resto, l’Inghilterra ha una lunga storia fatta di controversie interne in casi del genere. C’è chi ha richiamato alla memoria del 14 maggio 1938, quando allo stadio Olimpico di Berlino la nazionale inglese di calcio fu costretta, per volere delle Ministero degli Esteri e della federazione calcistica, a esibirsi nel saluto nazista prima di una partita amichevole contro la Germania. E c’è chi ha ricordato come nel 1980 Colin Moynihan, ora altro dirigente del Comitato Olimpico, fu tra gli atleti britannici che presero parte ai Giochi di Mosca (boicottati da molti Paese in segno di protesta contro l’invasione sovietica in Afghanistan) portando a casa una medaglia d’argento nel canottaggio. E poi non è così lontana nel tempo la presa di posizione del principe Carlo, fiero sostenitore del Dalai Lama e della causa tibetana, che ha apertamente criticato la dittatura comunista cinese, prima di dichiarare che mai e poi mai andrebbe in Cina, neppure se invitato dagli organizzatori dell’Olimpiade. Curioso come sua nipote, Zara Phillips, atleta in vista negli sport equestri e probabile leader del team britannico favorito per la conquista dell’oro, sarà costretta ad attenersi alla controversa clausola per partecipare ai Giochi di Pechino. Se la Gran Bretagna si affianca a Nuova Zelanda e Belgio tra i Paesi che finora hanno adottato un provvedimento del genere, altri si sono dichiarato di ben diverso avviso. «Quel che diremo ai nostri atleti è di concentrarsi sulle competizioni, ma ognuno può avere le proprie opinioni e deve essere libero di esprimerlo»: pensieri e parole di John Coates, presidente del Comitato Olimpico australiano. Sintonizzato sulla medesima lunghezza d’onda Jouko Purontakanen, segretario generale del comitato finlandese: «Non daremo istruzioni in materia: per quanto ci riguarda la libertà di espressione è un diritto basilare, che non può essere limitato». FONTE: LA STAMPA |
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