News

Comunicato Stampa

mercoledì 16 Gennaio 2008

Comunicato Stampa

LE FRAGILITA’ CHE FANNO GOL

di Marco Viani **

Caro Marco Calamai,
so di essere una ragazzina piena di paure e per questo di fronte alle difficoltà piango o dico no. Un giorno dopo la partita di basket mi hai detto: “O ti svegli o ti perdo”. Queste parole mi hanno un po’ offesa, ma poi con l’aiuto della mamma ho capito cosa volevi dirmi. Se mi devo svegliare significa che posso fare, ma devo credere di più in me stessa. Adesso, come hai visto, cerco di essere più coraggiosa di tirare il pallone nel canestro, di ascoltare e di fare quello che spieghi. Quando la lezione finisce esco dalla palestra più contenta perché mi sono divertita. Ho fatto tanti, tanti canestri e ho aiutato la mia squadra a vincere.
Ciao, Silvia
”.

E’ la lettera di una ragazzina “piena di paure”, come ella stessa riconosce, al suo allenatore impegnato, con una squadra di basket, a far crescere o addirittura a far scoprire la vita a tante altre creature alle prese con quotidiani tremolii e, forse, con altre paure.
Ciò che mi piace tirar su da questa lettera è registrare come la fragilità si fa lievito e sostanza, in una parola valore, di un nuovo rapporto, di un nuovo stare ed essere insieme di due persone. Silvia sbanda, oscilla, rifiuta. Si assenta da se stessa e dagli altri. Vive un vuoto. Marco lo vede e ci si immerge. “O ti svegli o ti perdo”. Chiede molto a Silvia, ma anche molto a se stesso. Perché per non perderla, per non smarrire tutto ciò che Silvia è per se stessa, per lui e per tutta la squadra, deve anch’egli “svegliarsi”, farsi nuovo, riprendersi in mano. Anche Marco, in sostanza, vive un suo vuoto, una sua fragilità davanti a un diverso impegno, davanti a un più alto coinvolgimento.
La mano che ti porge il malato, il debole, il precario, l’indeciso non è solo un’opportunità per essere vicini, ma anche una possibilità di andare insieme oltre i propri limiti, di richiamare la reciproca forza attraverso la reciproca debolezza. Quando tu mi aiuti a tirarmi fuori da me stesso, quando tu mi porti alla luce, porti alla luce anche te stesso, diventi un altro. La tua e la mia fragilità ci fanno conoscere, entrare in noi, unire in profondità per poi diventare, e farci diventare, motori di un altro noi, per restituirci nuovi a noi stessi.
Un meno, che non riconduce forzatamente a menomazione, diventa così tramite, poi conoscenza, poi futuro. Credo proprio che questo avvenga anche con la sofferenza. Penso a quelle persone, né santi né eroi, che sentono il male come condizione naturale della loro esistenza, che vivono l’handicap come mezzo di congiunzione fraterna con tutti gli altri, che accolgono il dolore come una componente buona e bella della vita. Non da scorporarlo da questa, non da negare ma da gustare, da abbracciare forte forte. Anche per me questo abbraccio con la sofferenza è uno dei mezzi più diretti e più efficaci per ascoltarsi, per mettersi in contatto con se stessi, per sondare la nostra umanità, prendere in mano il nostro cuore e armonizzarlo con quello degli altri. Direi che è una buona postazione, un pregiato osservatorio per guardarsi veramente dentro e da questo interno uscire per incontrare e capire (non giudicare) i sentimenti di chi ci sta vicino ed anche lontano.
Il limite inoltre richiama il cielo. C’è un bisogno di infinito che accompagna inesorabilmente chi vive una menomazione. Il più immobile è il più pronto al viaggio, il più silenzioso è il più pronto all’urlo. Per questo chi gli è accanto deve guardare in alto in tutti i sensi e in tutte le direzioni. Chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà con chi non si stacca da terra, ma insegnare a tutti il volo.
Silvia e Marco s’innalzano insieme. Ci piace vederli tutt’e due con le mani verso il cielo, su su, oltre oltre, verso un canestro dove segnare. E’ questo il gesto che rende unico e sublime il basket perché tirare verso l’alto è come un dispiegare di ali, un volo che disegna una invocazione, che delinea una liberazione, che avvolge come un abbraccio, che racchiude un sogno.
E’ artificioso a questo punto chiedersi se il rapporto tra un allenatore e una allieva così particolari non racchiuda dinamiche e insegnamenti comuni, e magari utili, anche a tutti coloro che vanno in panchina e in campo in condizioni ordinarie, seppur sempre complesse e problematiche? Chi non si è mai imbattuto nel silenzio o nel mutismo di un suo giocatore? Chi non ha saputo decifrare o scoprire la richiesta di aiuto o di ascolto celata in una fuga o in un abbandono? Chi non si è arreso o è rimasto disarmato di fronte ad un dolore, ad uno smarrimento altrui? Chi non è ripartito proprio da una ferita per diventare più forte? Chi non ha scoperto in una “retrocessione” un valore per arrivare su su, oltre oltre, proprio come Silvia e Marco? Questo elenco potrebbe continuare, estendendosi in lungo e in largo, in verticale e in orizzontale, perché non esclude nessuno, tutti ne sono protagonisti.
Non mi pare quindi una forzatura riportare, al termine di queste righe, le parole che un’educatrice, la dottoressa Emma Lamacchia, rivolge ai vari istruttori interessati ad avvicinarsi al mondo dell’infanzia con handicap. La responsabilità di rivolgerle a tutti voi è unicamente mia, e in sincerità non so se dover chiedere scusa a qualcuno per questa estensione.

Lettera ad un allenatore
Sei un uomo forte, pieno di energia,
abituato a lavorare con persone sportive, abili.
Forse non hai avuto l’occasione di ascoltare bambini
che hanno poca voce per farsi sentire e parlano tanto
piano o tanto male che viene da pensare non abbiano
niente da dire.
Prova ad ascoltare chi non ha voce, è piccolo, impacciato,
non ha abilità perché ha dei difetti fisici o psicologici,
si sente inferiore, ha paura, vergogna di essere al mondo così.
Puoi scoprire un mondo tanto ricco che sa parlare dei
temi fondamentali dell’esistenza umana, con immediatezza,
sincerità e verità.
Puoi scoprire che bambini che non sanno giocare o forse
non sanno neanche desiderarlo, possono imparare con un adulto
molto competente nel gioco,
mosso non dalla pietà, ma dal desiderio
appassionato di sviluppare la potenzialità che esiste
in ognuno e risvegliare la voglia di giocare.
Un bambino con difficoltà può essere aiutato a cambiare
se un adulto capace, con buoni occhi, gli dice:
“Anche tu puoi giocare”.

** giornalista, collaboratore del Settore tecnico della Federcalcio,
disabile per un incidente avvenuto quando era nel pieno
della sua carriera agonistica


FEDERAZIONE ITALIANA CANOTTAGGIO
www.canottaggio.org
Ufficio Stampa
Tel. +39.335.6360335 – Fax +39.06.3685.8148
E-mail:
comunicazione&[email protected]