Matteo Castaldo: una medaglia olimpica voluta, cercata e ottenuta
Matteo Castaldo: una medaglia olimpica voluta, cercata e ottenuta
ROMA, 19 agosto 2016 – La sua storia l’abbiamo detta, ridetta e stradetta. E’ la storia dell’atleta apparentemente qualunque che ce l’ha fatta. Con il sudore, il sangue, il sacrificio. Più degli altri, perché a sostenere quei sacrifici e i sogni che ne derivavano non ci sono due metri di altezza né tanto meno 95 chilogrammi di forza da scaricare sui remi. C’è solo il cuore. Ed è così che Matteo Castaldo, canottiere olimpico per la prima volta a 30 anni suonati, quei sogni li ha prima inseguiti e poi trasformati in realtà. Una realizzazione che ha iniziato a concretizzarsi ad Aiguebelette, dopo aver riportato in Italia a 20 anni di distanza dall’ultima volta il titolo mondiale assoluto nel quattro senza: “Avendo vinto il Mondiale in Francia, tutti sapevamo che saremmo andati in Brasile per giocarci una medaglia, chiunque avessimo avuto contro e chiunque avesse composto la barca. Conoscevamo le nostre potenzialità, e gara dopo gara capisci che sei nelle condizioni di cogliere l’obiettivo prefissato. Nello specifico, in questa ultima annata non avevamo mai fatto gare eccellenti, non siamo mai scesi pienamente soddisfatti delle nostre prestazioni. Tuttavia eravamo sempre lì, e la barca aveva una buona velocità, e allora capisci che puoi farcela”.
E ce l’ha fatta Matteo, insieme ai suoi compagni di quattro senza Giuseppe, Domenico e l’altro Matteo: a Rio de Janeiro è arrivata la medaglia di bronzo olimpica alle spalle della corazzata Gran Bretagna e dell’Australia. Un alloro che nella mente del vogatore napoletano non è mai stato in discussione. O forse sì…: “Quando per poco non mi sono rotto le costole, ho temuto di vedere infranto il sogno di una vita, mi era crollato il mondo addosso. Ma al di là di quel momento, grosse difficoltà non le ho mai percepite, non ho mai pensato che non ce l’avremmo fatta. Più che altro, ho avuto qualche momento di nervosismo già a Rio, a causa dei continui rinvii per le condizioni del campo di regata. Ecco quello, unitamente all’aspettativa che c’era su di noi, mi ha dato un po’ fastidio ma non ha mai minato le mie certezze di potercela fare. Ci siamo allenati sotto una grande pressione, frutto anche del passato: nel 1996 ad Atlanta il quattro senza arrivò da bicampione del Mondo e fallì, a Pechino 2008 da vicecampione mondiale e fallì, il nostro tecnico Andrea Coppola ricordava bene queste due esperienze e ci teneva in guardia, con la giusta pressione e la testa accesa”.
Tutto, anche la pressione, è servito affinché sul Lagoa Rodrigo de Freitas il quattro senza azzurro conquistasse la medaglia di bronzo. Una gioia tanto grande quanto sofferta, come spiega uno dei suoi protagonisti: “Tagliato il traguardo mi faceva male tutto, dalla punta dei piedi fino ai denti! Mi sentivo stordito, ma felice. Contento per me e per la mia famiglia. E sei felice solo per quello, io non ho pensato alla mia storia, ai sacrifici. Non ci ho pensato più. Ho pensato a me e alla mia famiglia. E ad Andrea Coppola, il mio allenatore al Savoia e in Nazionale. Trovarlo sulla mia strada è stata la mia grande fortuna. Nel 2010, di ritorno dai Campionati Italiani di Mantova, gli detti un passaggio per Napoli, manifestandogli nel chiacchierare la mia volontà di smettere. Lui mi pungolò, mi chiese di provare ad andare da lui al Savoia a vedere se avrei potuto trovare dei nuovi stimoli, e ogni volta li ho trovati. E’ stato un crescendo: il titolo italiano Assoluto in singolo nel 2012, la medaglia in Coppa del Mondo nel 2013, il Mondiale dell’anno scorso. Andrea Coppola è stato il motore di tutto ciò, per questo sul traguardo ho pensato anche a lui”. Una storia, quella di Matteo Castaldo, sempre bella da ascoltare. E da raccontare alle generazioni future, perché è un monito a non mollare. Chissà se Matteo lo farà, se resterà nel canottaggio quando deciderà un giorno di appendere i remi al chiodo e di lavorare con papà Nino, suo primo sostenitore e sempre presente sui campi di regata, nella sua agenzia di assicurazioni:
“Non mi vedo sicuramente nelle vesti di dirigente, anche se non mancherà occasione di venire sui campi a vedere le gare. Nel nostro mondo si sa, non ti stacchi mai del tutto e resti sempre legato. Sicuramente la mia storia, ciò che ho passato, è un esempio per chi oggi è più piccolo fisicamente dei coetanei, per chi si vede andare piano al remoergometro e quant’altro. A questi ragazzi, raccontando la mia esperienza, dico che ci vogliono molta pazienza e dedizione. E i risultati se devono arrivare arriveranno”. Matteo ci ha messo una vita agonistica a raggiungere quelli più importanti, ma ce l’ha fatta. E’ stata un’escalation di successi. E ora che al collo brilla il bronzo di Rio de Janeiro, può dirci un momento che gli resterà scolpito nella memoria: “La faccia di Andrea Coppola a Casa Italia la sera dopo la vittoria. Eravamo seduti a cena uno davanti all’altro, e mi guardava stupito, dicendomi che niente di meno avevo vinto una medaglia ai Giochi Olimpici! Una medaglia che oltre ad essere anche un suo successo professionale penso lo sia anche dal punto di vista personale, perché Andrea dietro a me ha gettato il sangue per portarmi dove sono arrivato”.