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Canottaggio internazionale e FISA Camp secondo Thor Nilsen  (seconda parte)

sabato 16 Aprile 2011

Canottaggio internazionale e FISA Camp secondo Thor Nilsen  (seconda parte)

Canottaggio internazionale e FISA Camp secondo Thor Nilsen
 (seconda parte)


di Enrico Porfido

PIEDILUCO, 16 aprile 2011 – Seconda parte della nostra chiacchierata con Thor Nilsen, attuale responsabile del programma di sviluppo dei paesi emergenti della FISA.

Come nasce il FISA Camp? Quali sono state le difficoltà e i risultati?
“Questo tipo di programma è nato negli anni ‘80. Le prime volte è stato qualcosa di terrificante, ogni nazione arrivava con atleti che vogavano in modo completamente diverso ed è stato davvero difficile arrivare ad identificare un unico stile di voga da prendere come riferimento. È stato anche molto complicato far capire che questa è la tecnica di voga giusta, o almeno quella più corretta. Ad ogni singolo atleta abbiamo consegnato un profilo chiaro delle proprie potenzialità”.

L’obiettivo quindi è valorizzare il talento degli atleti, ma dal punto di vista pratico come operate in questi training camp?
In questi giorni abbiamo fatto molti test sui ragazzi del FISA Camp. L’obiettivo principale era tracciare dei profili chiari degli atleti. Abbiamo sottoposto i ragazzi al test di massimo consumo di ossigeno per capire la loro capacità di lavorare senza produrre acido lattico. Se si comincia a produrre acido lattico il corpo si ferma, perciò è necessario avere un alta soglia di resistenza. Gli altri test cui abbiamo sottoposto gli atleti sono il controllo della percentuale di grasso nella massa corporea e poi le misure antropometriche. Inoltre abbiamo sottoposto tutti a visita medica. Questo è tutto quello che abbiamo fatto in questi giorni, oltre ovviamente ad aver fatto normale allenamento e lezioni teoriche sulla tecnica di voga. Abbiamo cercato di spiegare cosa fare per poter essere competitivi a livello internazionale, dando consigli ad allenatori e atleti. Ognuno ha un modo diverso, tempistiche e mezzi di versi per allenare il proprio talento, ma almeno sono chiari gli obiettivi. Noi diamo l’input, poi chi ci crede veramente deve aiutarsi da solo. Nella speranza di coinvolgere il maggior numero di atleti possibile però ogni tanto si commette qualche errore. Ne ho visti tanti di presunti atleti che messi a confronto con persone comuni non allenate mostravano le stesse capacità e potenzialità”.

Con grande sorpresa di tutti abbiamo visto in campo gli atleti della Tunisia, che a causa della situazione politica in cui si trova la loro nazione non avevano assicurato la loro presenza. Pensare qualcosa con le Federazioni africane, come quella del Sudan, qui presente l’anno scorso?
“E’ il vero e unico paese in via di sviluppo. Hanno problemi basilari come i trasporti e la comunicazione, per non parlare di problemi politici ed economici. Non si può pensare ad uno sviluppo dal punto di vista sportivo se prima non si pensa a tutto il resto”.

A questo Camp hanno partecipato anche Armenia e Georgia. La loro situazione, come paesi dell’ex Unione Sovietica, non è ancora abbastanza stabile, è credibile pensare per loro un canottaggio ad alti livelli in un futuro prossimo?
“Ultimamente mi sono concentrato maggiormente sui paesi dell’ex Unione Sovietica. Quando l’URSS è collassata, tutto il materiale sportivo è stato spostato a Mosca, dove è tuttora a disposizione delle federazioni sportive russe. Così però tutte le nascenti nazioni indipendenti hanno perso le attrezzature. Economicamente hanno molte difficoltà, quindi è difficile per loro acquistare strumentazioni. La struttura della loro federazione è completamente diversa da quella italiana. Nonostante il regime sovietico si sia concluso vent’anni fa, la loro politica è ancora molto legata al concetto di governo centrale e questo si riflette anche nell’organizzazione delle federazioni nazionali sportive. Federazioni come quella georgiana e armena non sono composte da differenti club privati, ma continuano a fare affidamento solamente sul governo centrale. Per non parlare delle enormi difficoltà nella comunicazione”

E dal Perù e dal Messico cosa possiamo aspettarci?
“In Argentina, Perù e Brasile, ad esempio, esistono grandi centri sportivi, delle vere e proprie città, che riuniscono vari club di diverse discipline sportive. In Perù c’è un grande club sportivo, il Remo de Lima, che conta ventiquattromila iscritti e si estende su una grande area della costa pacifica. Ospita le sedi sportive di tantissimi sport, cinque ristoranti, due banche. Al mondiale di Barcellona di pallavolo femminile di qualche anno fa è stata la squadra societaria di questo club a vincere la medaglia di bronzo. Le società più antiche sono anche le più ricche, ma per quanto riguarda il canottaggio hanno un grande limite. Spesso il loro bacino remiero è nel porto e questo non permette agli atleti di allenarsi con costanza. Un discorso simile si può fare per due club brasiliani, il Flamengo e il Vasco de Gama. Due dei più grandi centri sportivi brasiliani, che sono stati fondati come centri remieri e si sono poi concentrati su altri sport. In argentina c’è un club italiano fantastico, un edificio enorme con tutte le sale affrescate, veramente di grande livello. Purtroppo però non riescono ad avere molti atleti di importanza internazionale, probabilmente non hanno ancora dei punti di riferimento solidi, ma sono sicuro che nei prossimi anni li vedremo sempre più presenti nei campi di regata internazionali”.