TRIESTE,
02 febbraio 2014 - Ognuno di noi può avere le sue attenzioni, le sue
passioni per uno sport più che per altri, ma i risultati ed i ricordi di quanti,
grandi campioni, hanno onorato lo sport azzurro, specie se la loro base di
inizio nasce tra mille difficoltà della vita, è patrimonio di tutti. Il 31
gennaio a Trieste, in occasione della presentazione della 21.a e ultima tappa
del Giro d'Italia 2014, alla Sala Tripcovich, all'insegna di “Trieste onora i
suoi campioni”, tra gli altri c'era anche Abdon Pamich, oggi ottantenne,
olimpionico di marcia e con una storia attraverso 5 Olimpiadi. Era nato a Fiume,
una terra di campioni dello sport, ma 67 anni fa la drastica decisione delle
nazioni vincitrici della guerra la poneva oltre confine e come altri conterranei
superava col fratello in maniera avventurosa la ferrea cortina che divideva la
Venezia Giulia arrivando a Trieste. In seguito, trasferito a Genova, fu
affascinato dalle gare di marcia e pur se allettato da chi lo voleva
canottiere, preferì le gare su terra ferma, arrivando all'oro olimpico. Una
simpatica intervista su “Il
Piccolo” gli è stata dedicata da Roberto Degrassi, passando in veloce
sintesi tutta la sua lunga carriera.
Ferruccio Calegari
Da Il Piccolo di Trieste 30/01/14
Pamich: 80 anni (e tre vite) attraversati a passo di marcia
L’oro nella 50 chilometri alle Olimpiadi di Tokyo ’64 sarà tra i premiati del
gala di venerdì sera alla Tripcovich
di Roberto Degrassi
TRIESTE. Ha attraversato la giovinezza di corsa, suo malgrado, e ha conquistato
il mondo a passo di marcia. A 80 anni Abdon Pamich riannoda i fili del passato e
delle sue tre vite con la pazienza della saggezza. Venerdì sera alle 20 sarà a
Trieste per venir premiato alla Sala Tripcovich nella manifestazione “Trieste
onora i suoi campioni ricordando Giordano Cottur”.
Abdon Pamich, nato a Fiume il 3 ottobre del 1933. Si dice che tra gli antenati
ci fosse stato anche un doge.
“Così pare. I nonni materni erano veneti, Salomon. Mio nonno paterno invece era
di Albona. La famiglia veniva da Gimino, dove erano quasi tutti Pamich”.
Una terra lasciata, con dolore, a nemmeno 14 anni. Il 23 settembre 1947. E una
lunga corsa verso un futuro migliore.
“Mio padre era andato a Milano a cercare lavoro. Io e mio fratello Giovanni quel
giorno abbiamo deciso: «Basta, qui non si può più stare. Si taglia la corda». Il
mattino era scivolato via come tanti altri: ricordo un bel sole, l’ultima
giornata al mare. La svolta quando siamo tornati a casa. Lasciamo la mamma, mia
sorella e il fratello più piccolo, Raoul. Partiamo, a piedi. Arriviamo fino a
San Pietro del Carso, cerchiamo di stare nascosti e attendere il primo treno
diretto a Ovest. Passa un treno. Una parte deve finire a Trieste, un altro
convoglio è destinato a Fiume. Non ci pensiamo su e saliamo a bordo. Il treno si
muove e ci rendiamo conto che è quello sbagliato. Stiamo tornando a Fiume,
saltiamo giù alla prima stazione, scappiamo di corsa lungo i binari e torniamo
ad aspettare il treno buono”.
Le traversie non sono ancora finite.
“Scendiamo a Divaccia. Nella stazione ci sono persone in fila con i permessi per
andare a Trieste. Ci uniamo a un gruppo. Arriva il treno, chiamano i passeggeri
e noi approfittiamo del trambusto per “imbucarci”, grazie alla complicità di una
coppia di triestini che ci fanno passare per i loro figli. Arrivati a Trieste ci
danno 500 lire, che per l’epoca era una sommetta. Non ho mai potuto
ringraziarli”.
Chiusa una pagina se ne apre un’altra. I campi profughi.
“Milano, Udine, Novara. In Piemonte, dove nel frattempo io, mio fratello e mio
padre veniamo raggiunti dagli altri familiari, ci aspetta un alloggio...di
lusso. Non ci sono le finestre, la porta è scassata. Un inverno terribile.
L’ultima tappa è Genova e le cose vanno meglio”.
A questo punto entra in scena lo sport. In precedenza, a Fiume, solo qualche
timido approccio con la boxe.
“A Fiume c’era una buona tradizione. Penso a Ulderico Sergo, oro alle Olimpiadi
di Berlino. Mio zio era arbitro di pugilato, io e Giovanni seguivamo i match a
bordo ring e sognavamo. Ma mi dissero: prima dei 13 anni non puoi combattere”.
Una leggenda vuole che abbia cominciato a marciare nei cortili dei campi
profughi.
“Falso. Inizio spinto dall’esempio di mio fratello e dall’insistenza di un
compagno di studi. Avevamo visto le immagini di una 100 chilometri alla
“Settimana Incom”. Un colpo di fulmine. Nel frattempo c’è chi cerca di
conquistarmi al canottaggio. «Tu e tuo fratello potreste gareggiare nel due
senza, magari arrivate alle Olimpiadi di Melbourne...».
E in Australia ci arriva. Marciando, però.
“La prima delle mie cinque Olimpiadi. A Roma quattro anni dopo vinco il bronzo”.
A Tokyo 1964 il trionfo.
“Una gioia unica. Ma quanta sofferenza. Corro il rischio che mi sfumi anche
quella vittoria. Bevo un tè ghiacciato. Piove, fa freddo. Per farla breve, mi
ritrovo a combattere contro l’inglese Nihill e una colica. Dopo 38 chilometri
non ce la faccio più e devo liberarmi”.
E qui la storia tramanda due versioni: dietro una siepe o coperto dai militari
che presidiavano il percorso.
“Buona la seconda. Macché siepi, mica potevamo uscire dalle transenne. Mi sento
meglio e vado a vincere”.
E diventa una leggenda sportiva. Al punto che una sua vittoria nella
Roma-Castelgandolfo venne annunciata persino dal Papa...
“Questa è vera. Papa Paolo Sesto è nella residenza di Castelgandolfo per le
vacanze estive. Durante l’Angelus si rivolge ai fedeli: «Stamani c’è stata una
gara di marcia e sapete chi ha vinto? Abdon Pamich!». Nella mia carriera ho
conosciuto tre Pontefici. Con 5 Olimpiadi le occasioni non sono mancate...”.
Altri tempi. L’ultima immagine in Italia legata alla marcia sono le lacrime di
Schwazer che ammette il doping.
“Adesso lo sport è un mestiere. Non so se, nascendo 20 anni fa, sarei riuscito a
fare l’atleta. Il mio era un mondo più semplice: si vinceva, si perdeva, il
rivale fuori dalla gara diventava un amico. Ora la marcia la fanno in pochi: in
una 50 km sono partiti in sei e arrivati in 4. La gente preferisce le maratone.
Ma io dico: cosa c’è di più naturale del camminare?”.
Laureato in sociologia e psicologia, è stato anche psicologo della nazionale di
pallamano.
“Nello sport c’è ancora molta diffidenza per figure come la mia. Ricordo che gli
azzurri erano allenati da Cervar e ogni tanto lo sorprendevo a curiosare il mio
lavoro. Uno psicologo non ruba il lavoro all’allenatore, semmai appiana i
problemi e mette gli atleti nelle condizioni di esprimersi con serenità.
Stranamente proprio gli sport più ricchi sono i più retrogradi. Nel calcio
quanti psicologi incontrate”?